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STORIA DELLA STREET PHOTOGRAPHY DAI PRIMORDI A OGGI

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©Alecani 2014

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La Street Photography è un genere fotografico che ha per soggetto le relazioni sociali (o le tracce di queste) nelle strade, nei luoghi pubblici adiacenti a queste (uffici, attività commerciali) e sui mezzi di trasporto. I canoni del genere sono ampiamente codificati nella storia della Fotografia e molti grandi fotografi ne hanno fatto la loro specialità. La categorizzazione riguarda unicamente la rappresentazione del tipo di ambiente, gli oggetti e i soggetti che lo popolano, non le finalità o particolari tecniche di scatto né tantomeno particolari estetiche, sebbene in determinati periodi ci siano stati elementi predominanti in tal senso.

Nei primi anni del Novecento il fotografo di strada era l’ambulante che si piazzava in Times Square o Piccadilly Cyrcus e scattava foto ai passanti dietro compenso (una sorta di cabina per fototessere ante litteram). La definizione di Street Photography è cambiata più volte nel corso della storia della Fotografia. Nasce infatti come sottogenere della Fotografia Documentaria, al pari del Fotogiornalismo e del Reportage, (e spesso vi confluisce) ma a differenza di questi non necessariamente i singoli scatti devono contenere un fatto di cronaca o una disamina di tipo sociale, potendo poggiarsi in parte o unicamente sull’espressione artistica o sull’emotività dei contenuti, pur mantenendo comunque un grado di figuratività molto alto.

La strada diventa tòpos fotografico sin dagli esordi della storia del mezzo. Una delle vedute di strada più famose, Boulevard du Temple, scattata da Jacques Daguerre nel 1838, mostra la prima rappresentazione di figura umana. La lentezza dei primi supporti impressionabili e delle prime ottiche non permetteva di registrare soggetti in movimento; in quel caso il dagherrotipo di Daguerre registrò un uomo fermo davanti al banchetto di un lustrascarpe. Pochi anni dopo, sempre a Parigi, Charles Nègre, pittore fotografo, produsse scatti che ancora oggi appaiono schietti e spontanei, nonostante i suoi soggetti fossero posati ad arte per simulare l’istantanea che ancora la tecnologia del tempo non poteva permettere.

Nella seconda metà dell’Ottocento la strada divenne soggetto delle opere degli impressionisti, che introdussero nelle loro composizioni i nuovi elementi della modernità caratterizzanti il paesaggio urbano. Già la pittura romantica aveva sdoganato la rappresentazione di scene di vita ordinaria, come il lavoro nei campi. Pittori come Manet e Caillebotte dipinsero ‘en plein air’ scene di strada molto simili a degli snapshot. L’immediatezza del mezzo fotografico costringeva a un’impostazione meno progettuale e spesso le composizioni urbane più riuscite contenevano elementi fuori dall’ordinario: espressioni particolarmente intense, soggetti molto (o per nulla) fotogenici, situazioni connotate da una forte carica emotiva, sia drammatiche che comiche, o anche forti contrasti tra due o più di questi elementi.

Con i progressi tecnologici i tempi di scatto diminuirono notevolmente. Negli anni Settanta dell’Ottocento si sviluppò la cosiddetta Concerned Photography, fotografia impegnata nel sociale, a servizio delle amministrazioni pubbliche (per documentare gli interventi in questo campo) o della stampa privata, per denunciare situazioni problematiche. Nel primo caso Thomas Annan fotografò, nel 1868, i vicoli di Glasgow in vista della demolizione delle strutture fatiscenti in cui la classe operaia viveva, per conto della società che doveva assicurare i lavori. Nel secondo caso, nel 1877, John Thomson raccontò la vita nelle strade di Londra raccogliendo in un libro gli scatti raffiguranti lavoratori, passanti e mendicanti. Anche in questo caso si trattò di foto posate. Già nel 1887 Jakob Riis fotografò le strade e i sottani di New York con l’ausilio del flash al magnesio.

Negli anni Ottanta dell’Ottocento uscirono sul mercato le prime fotocamere portatili. La Anschutz, prima fotocamera a vocazione reportagistica, permetteva, grazie al nuovo otturatore a tendina e in condizioni di luce ideali, tempi di scatto intorno al millesimo di secondo. L’inglese Paul Martin fu il primo a scattare gli snapshot (istantanee), scatti presi al volo per documentare l’azione senza mettere in posa i soggetti. Nacque così anche il genere della Candid Photography, in cui si producevano istantanee aventi per soggetto persone ignare di essere riprese.

Il Fotogiornalismo moderno nacque con la Graflex camera. Lewis Hine, un altro reporter socialmente impegnato nella New York dei primi del Novecento, la utilizzò per ritrarre i lavoratori e gli immigrati. Dotata di un sistema di mirino a pozzetto (precursore delle successive Rolleiflex e Hasselblad), conferiva ai soggetti ravvicinati che venivano inquadrati dal basso verso l’alto un aspetto quasi eroico. I ritratti di strada di Hine erano contestualizzati: c’era sempre un rapporto evidente e significativo tra il soggetto e l’ambiente.

George Eastman produsse le prime pellicole in rullo e pochi anni più tardi lanciò sul mercato la Kodak Brownie. La prima camera ‘point and shoot’ (punta e scatta) poteva essere usata anche da un bambino, e fu proprio un bambino di otto anni, Henri Lartigue, che avendola ricevuta in dono, documentò la vita della sua famiglia, nel privato delle mura domestiche ma anche nel pubblico, inaugurando così la cosiddetta Fotografia Vernacolare. Il suo lavoro fu scoperto negli anni Settanta dal curatore del MOMA John Szarkowski.

Il fotografo parigino Eugene Atget fotografò gli scorci urbani di Parigi per circa trent’anni, a cavallo del 1900. Nelle sue inquadrature, di tipo prevalentemente architettonico, raramente incluse le persone, ma con la sua opera gettò le basi per tutti gli street photographers di lì a venire. Atget mantenne un approccio molto rigido (usava un pesante banco ottico, già vetusto per i suoi tempi) e classificò i suoi scatti secondo tipologie ben precise. Sebbene questi fossero tecnicamente delle nature morte, l’assenza-presenza dell’uomo è ancora oggi percepibilissima.

Nello stesso periodo (e sino agli anni Venti del Novecento) il fenomeno del Pittorialismo imperò tra i fotografi con smanie artistiche. La strada e lo scorcio urbano erano tra i soggetti preferiti dai pittorialisti che trattavano le loro composizioni con sfocature, mossi, interventi in punta di carboncino e gessetti in fase di stampa. Alfred Stieglitz, promotore della Photo-Secession, pose fine al movimento e gettò le basi, assieme ad altri fotografi come Paul Strand e Edward Steichen, per l’avvento della Straight Photography. Questa fu presto esportata nella vecchia Europa, anche grazie alle avanguardie artistiche della Nuova Oggettività. L’americano Walker Evans fu il massimo esponente del genere, caratterizzato dall’esaltazione della nitidezza e della verosimiglianza. L’approccio era decisamente documentaristico, con inquadrature pulite, frontali e ricche di dettagli. La composizione rispettava un equilibrio pittorico quasi accademico, come lo stesso Evans ammise. La Street americana manterrà sempre nel suo DNA, rispetto a quella europea, un taglio più distaccato e anche più cinico.

Surrealisti e altre avanguardie esplorarono la Street Photography, cogliendo tutte le possibilità offerte dalle inquadrature (dall’alto o dal basso), dalla tecnica (mosso, sfocatura, esposizioni multiple) o dagli stessi elementi d’arredo urbano (cartelloni, riflessi nelle vetrine) o semplicemente sfruttando gli elementi più comuni secondo le loro valenze simboliche e semi-simboliche, attraverso una composizione funzionale a queste nuove significazioni, spesso ricalcante l’azione dell’artista che compone un collage. Andre Kertesz, negli anni Venti, sperimentò tutte le possibilità offerte dal nuovo formato e introdusse l’utilizzo del teleobiettivo, sfruttando lo schiacciamento bidimensionale caratteristico di questa lente per produrre un nuovo tipo di immagini con una prospettiva mai vista prima.

Il cinema Noir sfrutterà appieno questo tipo di distorsioni per drammatizzare atmosfere già di per sé molto forti e contrastate. La strada era lo scenario perfetto, soprattutto nelle ore notturne in cui l’illegalità prendeva il sopravvento. I quotidiani, affamati di storie torbide, sguinzagliarono reporter di ‘nera’ in tutti i commissariati. Arthur Weegee eccelse in questo tipo di reportage fotogiornalistico, asciutto, crudo, oscuro, intercettando le comunicazioni radio della polizia e vagando per le strade con un vero e proprio laboratorio di sviluppo nel bagagliaio della propria auto, per mandare in stampa le foto delle notizie ancora calde. In Europa Brassai raccontò le notti parigine tra prostitute di strada e locali ai limiti della legalità. Le atmosfere sono noir ma mantengono un’umanità quasi poetica.

Le camere ‘point and shoot’ tascabili come la Leica, robuste, veloci e soprattutto discrete, permisero a una nuova generazione di fotografi di comporre immagini in piena libertà, e la strada era più di altri luoghi ricca di oggetti, fissi e mobili, che potevano rientrare in queste composizioni.

Il giusto apporto dei due aspetti compositivi, quello figurativo-formale e quello simbolico-concettuale era (ed è tutt’ora) alla base della poetica bressoniana dell’istante decisivo: “Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore”. Non per niente Henri Cartier Bresson ebbe una formazione pittorica e frequentò i salotti delle avanguardie surrealiste. Molte delle sue foto di strada sembrano a prima vista non avere alcuna morale da raccontare, a volte nessuna storia che non sia una banalissima scena di strada. Ebbene, il banale è un concetto relativo: ciò che lo è al momento dello scatto non lo sarà più col passar del tempo, fino a diventare una spettacolare finestra su un passato più o meno recente. Bresson non esprimeva alcun giudizio attraverso i suoi scatti street, documentava in egual modo a Parigi come a Shanghai, cercando un contatto con l’umanità in tutte le sue forme, senza preconcetti, con onestà e rispetto.

La diffusione dei tabloid, negli anni Trenta, offrì ai fotografi di strada nuovi spazi di pubblicazione. Il lettore comune amava leggere e vedere le vite dei suoi simili accanto a quelle dei politici o delle star del cinema. Articoli di costume si alternavano a seriosi reportage di guerra o di cronaca e la strada rimaneva una fonte inesauribile di scatti curiosi e di facile presa.

La documentazione della devastazione di molte città europee alla fine del conflitto ebbe largo spazio nelle riviste d’epoca. I bambini figli della guerra furono protagonisti di famosi reportage, come quello di David Chim Seymour, uno dei fondatori dell’agenzia Magnum. Questa situazione favorì la nascita di una particolare corrente, la Fotografia Umanista, i cui esponenti si specializzarono nel ritrarre soggetti e situazioni dalla carica fortemente empatica. Robert Doisneau, Willy Ronis e lo stesso Cartier-Bresson da una parte, i fotografi di Life Magazine dall’altra parte dell’oceano, come Elliott Erwitt e Helen Levitt puntarono sull’immediatezza e sull’autenticità, avvicinandosi all’estetica e ai temi del cinema Neorealista italiano. Edward Steichen, curatore del MOMA negli anni Cinquanta, raccolse il meglio della produzione in una mostra che ebbe un successo planetario. The Family of Man rappresentava le azioni quotidiane più comuni (mangiare, dormire, incontrarsi, ecc.) nelle diverse culture del mondo.

Il filo conduttore di tutte le fotografie di strada sino a quel momento prodotte era la volontà di influenzare il presente, di cambiare la società documentandone gli aspetti più evidenti per sensibilizzare l’opinione pubblica, ma sempre attraverso nessi di causalità molto evidenti: guerra e distruzione, povertà e degrado, tecnologia e progresso, baci e amore.

Alla metà degli anni cinquanta due fotografi, William Klein e Robert Frank, rivoluzionarono il linguaggio fotografico proprio attraverso la Street Photography. I loro scatti erano squilibrati, le regole compositive venivano puntualmente infrante, quelli che erano considerati errori di tecnica (mosso, sfocature, sgranature) diventavano elementi funzionali al messaggio. Non solo: per dirla con le parole di John Szarkowski, curatore della mostra New Documents, “la tecnica e l’estetica della fotografia documentaristica vengono indirizzate verso finalità più personali. Scopo dei fotografi non era più quello di contribuire a cambiare in meglio la società, ma di conoscerla”. Il fotografo non è più un costruttore di senso ma un ricercatore di senso e le immagini non danno più risposte ma interrogano chi le guarda.

New Documents raccolse le opere di tre fotografi di strada newyorkesi: Diane Arbus, Lee Friedlander e Garry Winogrand. Se si esclude una forte impostazione di derivazione documentaristica degli scatti della Arbus (posava i suoi soggetti e all’occorrenza usava il flash), si ritroveranno in molte di queste foto gli elementi introdotti da Klein e Frank. Winogrand scatta in maniera compulsiva, nella sua opera (perlopiù ancora inedita) possono individuarsi alcune tematiche ma non uno stile unico, un’estetica che lo rappresenti. Egli faceva Tough Photography. Il termine è intraducibile, una via di mezzo tra tosto, forte, duro, difficile, esigente, nudo, senza compromessi, senza secondi fini. Lo scatto è una materia prima, si fotografa il mondo “per vedere come appare il mondo quando è stato fotografato”. La sua è pura ricerca inconsapevole, la sua visualizzazione comincia dopo lo scatto, quando l’autore si ritrova a scoprire i significati nascosti in ciò che ha catturato, e che non conosce. “Non ho nulla da dire nei miei scatti. Se sono fortunato, ho qualcosa da imparare”.

Ancora oggi le immagini di Garry Winogrand, Lee Friedlander, Joel Meyerowitz, sono ‘toste’ da apprezzare, da vedere, da fare, da leggere, da comprendere. Ma, e qua sta la grandezza, sono toste anche nel senso di belle, dirette, potenti, penetranti, coinvolgenti. Ciò accade quando il fotografo è nella condizione in cui tough e beautiful diventano sinonimi e descrivono appieno la qualità di una buona foto rispetto a una semplicemente bella da vedere.

Il giapponese Daido Moriyama, attivo ancora oggi, fece un ulteriore passo avanti; la sua tecnica di scatto privilegiò sin dai primordi l’istinto, le emozioni e la soggettività dell’artista. Moriyama vaga per i sobborghi di Tokyo come un cane randagio. I suoi bianchi e neri fortemente contrastati hanno una tensione erotica molto potente, l’intera città è considerata un corpo unico che racchiude le pulsioni dei suoi abitanti. Il fotografo ci si addentra alla ricerca delle proprie, e lo fa ‘odorando’ e facendo leva su tutti e cinque i sensi.

Negli anni Cinquanta cominciò a diffondersi anche la fotografia a colori, grazie soprattutto alle pagine pubblicitarie nelle riviste. Saul Leiter, semisconosciuto fotografo americano, utilizzò il colore per documentare la strada proseguendo il discorso iniziato dagli innovatori Klein e Frank. Meyerowitz, Levitt, Moriyama e tanti altri, dopo decenni passati a scattare in bianco e nero, si sono cimentati col colore. Lo stesso Bresson si piegò al cromatismo, incalzato dai committenti dei magazine americani.

Negli anni Settanta la Street Photography riprese la sua funzione critica verso la società, ormai caratterizzata da fenomeni di massa quali il consumismo e la standardizzazione delle abitudini, già oggetto della Pop Art. L’inglese Martin Parr documentò questi aspetti, utilizzando colori saturi che richiamano proprio i manifesti pubblicitari. In questo stesso periodo William Eggleston sdoganò la fotografia a colori nelle gallerie d’arte.

Le fotografie Street diventarono (e tutt’ora lo sono) i modelli preferiti nelle opere della corrente pittorica Iperrealista. Tele di grandi dimensioni riproducono con un livello tecnico elevatissimo inquadrature fotografiche, con tutte le distorsioni delle ottiche, sospendendo ogni giudizio sul contenuto ed evidenziando il legame di causalità nuda e cruda tra soggetto, fotografia e dipinto, e mettendo in scena la pura rappresentazione di una realtà di seconda mano.

Steve McCurry, mostro sacro dei nostri tempi, ha fissato gli standard del reportage di viaggio, coniugando l’istante umanista bressoniano, la Concerned Photography e l’estetica del Sublime. Le strade lo portano lontano, la strada è incontro, relazione, scoperta, narrazione. I caratteristici colori della pellicola Kodachrome, l’autorevolezza delle pagine del National Geographic Magazine e la voglia di viaggio del grande pubblico faranno il resto.

Bruce Gilden, fotografo Magnum della New York School ancora attivo, fotografa i passanti piazzandosi d’improvviso davanti a loro, quasi spaventandoli, con tanto di flash. Il suo motto ben riassume l’estetica street: “se guardando la foto si sente l’odore della strada, allora è Street Photography”. Per la cronaca, Riis, Weegee, Walker Evans, William Klein, Diane Arbus e molti altri utilizzarono, a seconda delle esigenze, l’illuminazione artificiale. Philip Lorca DiCorcia predispone delle ‘trappole’ luminose con dei flash radiocomandati (come nella fotografia naturalistica) per illuminare e isolare gli ignari passanti e sottolineare così le micro-relazioni che si creano tra essi quando si sfiorano lungo i marciapiedi.

Con la rivoluzione digitale e il conseguente avvento di devices di vario tipo capaci di produrre immagini, si compie l’ultimo passo della grande storia della mezzo. Nel XXI secolo per Fotografia si deve intendere anche quella massa empirica di immagini online che costituisce l’insieme dei dati visivi attraverso i quali forgiamo il linguaggio sociale dei nostri tempi. Per le strade è un continuo inquadrare, inquadrarsi e pubblicare sulle piattaforme digitali una marea di foto immediatamente fruibili da moltissime persone. L’atto dell’autore non si limita al click, ma si estende sino alla pubblicazione in un contesto più o meno voluto. Prima dell’avvento del digitale era l’istante decisivo il metro di giudizio primario nella valutazione delle capacità di un fotografo, professionista o dilettante che fosse. Ora questo è dato dalla conoscenza dei meccanismi di diffusione delle immagini in rapporto a quelli dei vari campi: artistico, documentario, commerciale, personale.

Oggi la strada si è espansa, diventando essa stessa soggetto in quanto tale, e non solamente luogo, composto da simboli culturali attorno ai quali si muovono le persone che, una volta immortalate, sembrano recitare un canovaccio surreale. I fotografi di strada non sono più reporter, ma narratori e poeti, in cerca di contrasti, metafore e scenografie per partiture comiche o drammatiche. Per questo il genere è diventato la più semplice e comune forma d’arte spontanea.

Su Instagram, Facebook e Flickr abbiamo una produzione sterminata e inarrestabile di foto private, pubblicate e visualizzabili da chiunque, mentre negli hard disk casalinghi sono nascoste tantissime foto di vita pubblica che neanche l’autore vedrà mai. Questo in parte succedeva anche con la pellicola: buona parte dell’opera di Garry Winogrand è attualmente inedita (il fotografo newyorkese morì prematuramente, lasciando una grande quantità di pellicole ancora da sviluppare); la stessa Vivian Maier è un caso esemplare di Found Photography: bambinaia con l’hobby della fotografia di strada, non mostrò a nessuno le proprie foto in vita, la sua vasta produzione è stata portata recentemente alla luce da un ricercatore e fatta conoscere attraverso Flickr, all’epoca il maggior sito di Photo-sharing, per arrivare alle sale dei maggiori musei del mondo.

Nel campo artistico la Fotografia è nata come aspirante opera d’arte, ha portato l’arte davanti agli occhi di tutti, è entrata nei musei, prima come finestra, poi come specchio e ora vive come giustificazione per l’artista che vuole diventare egli stesso opera. Per questo è praticamente impossibile, al giorno d’oggi, fare Street Photography con pretese artistiche senza incorrere in nuovi Manierismi.

La fotografia digitale è anche il principale strumento di mappatura del quotidiano. Sfruttando la geolocalizzazione globale, le immagini urbane assemblate tridimensionalmente diventano, come nel caso di Google Street View, un duplicato del mondo, permettendo a chiunque di viaggiare o, nel nostro caso, passeggiare per le strade di tutti i continenti (e con il progetto Trusted Photographers anche all’interno dei luoghi privati), seduto comodamente davanti al proprio PC. Sono fotografie fatte dagli utenti e addirittura in automatico, ma sono anch’esse fotografie di strada. È l’attuazione de L’Artefice di Borges, in cui i cartografi dell’Imperatore producono una mappa talmente definita da diventare grande quanto l’impero stesso, perdendo ogni utilità. Le relazioni originate dalla condivisione si accorciano nel tempo e nello spazio, hanno vita brevissima e nessuna radice. La rete digitale funziona in gran parte con impulsi usa e getta, e le immagini non fanno eccezione.

Il fotografo a questo punto diventa necessariamente un selezionatore. Di immagini proprie o altrui, da ricercare prima che produrre, e da riposizionare, per creare nuove relazioni in una società che non si basa più sul possesso ma sulla condivisione (e sulla sua gestione) e il valore di un’immagine è dato dalla sua esposizione (Benjamin docet) più che dalle informazioni (leggi messaggi) in essa contenute.

I modi in cui i fotografi contemporanei esplorano in senso creativo le possibilità offerte dal supporto digitale hanno cambiato il classico flusso di lavoro: non siamo più davanti a delle stampe o a delle pagine cartacee, ma davanti a un monitor, in cui i linguaggi sono molteplici. Spesso troviamo nella stessa videata foto, filmati, grafiche, testi e sonoro. I nativi digitali attingono indifferentemente dalle estetiche del passato e dai media sopracitati, in un continuo scambio di elementi linguistici del visuale pubblicitario, televisivo, cinematografico e, non ultimo, dei videogames. La Street Photography è, come tutti i generi fotografici, il frutto di una pulsione o di un’idea, nonostante questo flusso si svolga prevalentemente sul web. L’ossatura rimane analogica, perché parte dal personale, si espande nell’ambiente pubblico sociale, crea reazioni e ritorna al personale, o meglio alle personalità di chi guarda, moltiplicando ulteriormente queste relazioni. E la Fotografia, non mi stancherò mai di ripeterlo, è una questione di relazioni.

©Alessandro Cani 2015

Written by alecani

2015/04/08 at 20:30